Se i Maya ci azzeccano, questo mio
secondo articolo su uMan sarà anche l’ultimo... Il 22 dicembre potrebbe essere
troppo tardi, accidenti! Resta da capire a che ora è la fine del mondo (se lo
chiedeva già a suo tempo Ligabue) considerati i fusi orari. Nel dubbio però, come
affermava la saggia Marge Simpson, «il giorno del giudizio lo si passa in
famiglia». Un po’ come il Natale. Al massimo, un party la sera prima con gli
amici, sdrammatizzando sul tragico evento muovendo ipotesi su quale girone
infernale ci toccherà quando saremo dall’altra parte.
Il futuro non c’è, non ci può essere; la
profezia Maya, almeno, ha una presunta data. Ma che dire del resto? Che dire
delle catastrofi ambientali, del tracollo economico, o delle estreme soluzioni
autodistruttive di massa (bombe atomiche…)? Forse è troppo comodo avere una
data prestabilita per la fine d’ogni cosa. Siamo sull’orlo del baratro, ma non
per questo potremo sincronizzare gli orologi e salutare l’Apocalisse col
countdown e lo spumante come fosse Capodanno, gridando: “Happy end!”
Okay, mi dispiace per Giacobbo, ma credo
proprio che la fine di cui si parli non sia l’Armageddon, bensì la fine di un’Era. Di un sistema. Di un
modo di vivere. Di un modo vecchio di stare al mondo, vecchio e orientato ancora
a consumare, a succhiar risorse e ricchezze finché si può, alla faccia dello
sviluppo sostenibile. È un modo vecchio di stare al mondo, quello che si affida
a ottimistici modelli sulla crescita del PIL. È un modo vecchio di stare al
mondo, quello che teme il crollo delle Borse più d’ogni altra cosa. È un modo
vecchio di stare al mondo, e materialista, quello che non rispetta l’ambiente
circostante, come se ci fosse un pianeta di scorta…
Fortunatamente esiste un’alternativa a
questo vecchio sistema: imparare a guardare con occhi diversi. Né modelli,
bilanci, PIL o spread, né crescita illimitata, strategie di mercato, incentivi
ai consumi. Sebbene insistano col dire che non ci sia, dobbiamo costruire il futuro, il nostro futuro,
lasciando i resti degli ultimi pasti a vecchi sciacalli che mai si cureranno di
noi. Costruire o ricostruire il futuro, il nostro futuro, mentre gli altri
distruggono e, forse ignari di saperlo, si distruggono. Costruire è andare oltre
le paure e i dubbi infusi dai distruttori stessi. Costruire è creare da zero
quel che non c’è e quel che non ci è stato concesso. Costruire è un atto dovuto
al fatto stesso che respiriamo.
Ecco, forse, un senso possibile sulla
fine che ci attende, al di là di improbabili asteroidi pronti a saltar fuori a
sorpresa, al di là di fenomeni tanto catastrofici quanto imprevedibili. Ecco,
il senso può essere la fine di un sistema che ha prodotto contraddizioni,
infelicità, circoli viziosi di consumi, insoddisfazione, povertà. L’umanità (purtroppo)
non ha bisogno d’aspettare una pioggia di asteroidi, né un attacco alieno: è
capacissima di autodistruggersi. Guerre,
bombe, fame, miseria, surriscaldamento globale, disastri nucleari. La lista
nera dei pericoli è talmente svariata che farebbe impallidire qualsiasi attacco
alieno. Abbiamo in mano un detonatore e mille modi per azionarlo. E, forse, uno
solo per deporlo.
Forse siamo ancora in tempo. In tempo
per ricominciare. Non sarà facile, però.
Per riscoprire il valore della vita e ridisegnare un sistema degno di contenere
la bellezza dell’umanità, infatti, dovremo riprogettare completamente il
nostro modo di stare al mondo. Dovremo ripensare alle nostre reali priorità per
capire non come salvarci (giacché davvero la fine del mondo può arrivare in
qualunque momento, e senza tanti preavvisi, suppongo) ma come vivere pienamente.
Se sabato 22 dicembre ci sveglieremo tutti integri, allora significa che non
sarà stata la fine del mondo, ma magari la fine del fondo; non ci resterà che
risalire. Ricostruire. Riprogettare. Un nuovo modo di stare al mondo.
Questo articolo lo trovate anche qui: http://www.uman360.it/un-nuovo-modo-di-stare-al-mondo/
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