Rilancio di fine anno

Bilancio di fine anno.
Che brutta cosa. Chi l'ha inventato?
Dovessi giudicare il 2012 ne uscirebbe un post assai deprimente, visto che sono riuscita a toppare quasi tutto, concretamente parlando. Eppure ho affrontato questo tutto con grande spirito di abnegazione...
Dal mio punta di vista, ho quadruplicato la mia produzione artistica, quantomeno in quantità, ulteriormente stimolata dall'avvento di questo blog; ora scrivo su varie piattoforme, cartacee e virtuali. E a fine anno mi ritrovo con un bel canzoniere affollato di note e parole, un taccuino colmo di storie e idee, corsi e concorsi tentati, e ben tre romanzi su cui lavorare per i prossimi anni, mi sa. Più quello finito, che ancora non s'ha da... pubblicare. E pensare che avrei altre storie in testa. Altro che blocco del foglio bianco, signori miei. Qui mi distraggo mezzo secondo e abbozzo una sceneggiatura a partire da un'immagine, una parola. Basta, voglio rinascere pasticcera! ;)
Mi sono dipinta perfettamente in Mille MiRe. Mi tocca sì afferrare i remi, ma dopo che avrò ripulito la barchetta. http://manesca.blogspot.it/2012/07/mille-mire.html
Volendola vedere da un'altra angolazione, si potrebbe invece concludere che sono rimasta nello stesso punto ove mi trovavo. Inconcreta pensatrice visionaria in un tempo dannato, che nulla dà se non lo smarrimento. Brutale angolazione.
Ma c'è una buona notizia. Il 2012 sta per finire.

Rilancio.
No, non farò alcun buon proposito, nessun decalogo degli obiettivi, nessun "devo realizzare questo, devo raggiungere quest'altro". Semplicemente, caro arrivante 2013, farò una bella pulizia. Via tutte le cose inutili. Pulizia in tutti i sensi possibili. Aria fresca. Devo far spazio. Questo è il mio piano. Non snocciolerò obiettivi da raggiungere, qualcuno potrebbe spaventarsi se davvero dicessi cos'ho in testa. E poi, non sono certo io che decido, la vita è uno spettacolo senza copione, tranne quello che ci scriviamo noi, inutile, giacché il colpo di scena è all'ordine dell'atto.
Per il prossimo atto però, desidero ripulire la scena. Rilancio attori e musiche e oggetti di scena. Rilancio coreografie e battute, speranzosa che il pubblico apprezzi.
Le cose facilimmediate sono così noiose. E lo sarebbero anche i miei libri se le vivessi. Già, i libri...
Quasi dimenticavo.
Vi assicuro che le storie che ho scritto e che sto scrivendo son tutt'altro che noiose. Contorte, complesse, ironiche, surreali forse, ma non noiose. Comunque, poi, le giudicherete voi. Perché le leggerete un giorno, sia chiaro. Non so quando, e soprattutto non so come. Ma so che accadrà. Le ho scritte per voi. E' per questo che sono qui. Non importa quanto ci vorrà. Accadrà. Dovessi ridurmi ai fascicoli e alle dispense, leggerete queste storie, profondamente umane. Perciò ve le voglio regalare.
Beh, regalare...
Diciamo prezzo popolare.
E poi, c'è il piano C... Rilancerò cominciando a raccontare quest'altra storia. Vera.

Arrivederci al 2013.

Chi_usura


Inizio, dicevamo.
Ci tocca continuare. Nessuna fine del mondo è arrivata, ma non è che siam messi proprio bene... Ci apprestiamo difatti a chiudere un anno di… chiusura. Troppe porte si son chiuse, quest’anno.
Chiusura di fabbriche, operai in cassa-integrazione, se non licenziati. Chiusura di negozi, repentini nell’apparire per le vie cittadine tanto quanto nell’abbassar le serrande. Chiusura di case. Quanti benestanti a sigillar la seconda e la terza e la sedicesima casa adibita a dimora vacanziera; quanti appartamenti vuoti, invenduti, quanti aspiranti compratori ostacolati da banche esigenti e spietate, quanti giovani impossibilitati che ancora affollano la casa paterna, quanti agenti immobiliari piazzisti allo sbaraglio a cercar di vendere comunque, quanti clochard fuori al freddo sotto cuccette di cartone a osservare. Che sistema stupido, potrebbe concludere un qualsiasi capotribù indigeno. Già.
Chiusura di associazioni culturali, teatri, librerie. La cultura non rende. I libri s’impolverano, i palcoscenici scricchiolano, le parole s’inaridiscono, i sipari calano.
Chiusura di bilanci in rosso. Aziende sull’orlo dell’oblio, imprenditori aspiranti suicidi a fare e rifare i conti, per poi far la conta per scegliere a quale cravattaro rivolgersi. Chiusura di assunzioni. In tempo di crisi qual folle mai potrebbe assumere nuovi dipendenti? Chiusura di cuori. Qui è un si-salvi-chi-può corale. Chiusura mentale.
C’è chi usura ancora questo sistema fallito, che non vivrà più un’altra Belle Epoque, né un altro boom economico italiano degli anni 50 e 60; nessun altro American Dream. Perché i sogni del Capitalismo si sono infranti, anzi, consumati. Alla Belle Epoque seguì la Grande Guerra. Al boom economico gli anni di Piombo. E gli statunitensi, fra stragi armate e disastri sociali, stanno pagando a caro prezzo il loro contraddittorio sogno a stelle e strisce.
La nostra ostinazione a salvare il sistema capitalista è in realtà una non-accettazione del mito che affonda. Come affondò l’inaffondabile e sfarzoso Titanic, celebre magno sogno della Belle Epoque. E proprio nel 2012 abbiamo assistito al naufragio della Concordia: un’imponente lussuosa nave relax & benessere rimasta incagliata fra gli italici scogli, inerme, così da esser ben visibile agli occhi del mondo intero; non è affondata in profondità, no, ma è stata (lussuosa) trappola letale per troppe vite umane. Lusso che affonda. Simbolico. Profetico. Tragico.
Ecco, questo è ciò che era. Ed ora, nuova Era. L’alba che segue la notte. L’arcobaleno dopo la tempesta. La voglia di vivere che prende il sopravvento sull’istinto a sopravvivere, o sull’inerzia di lasciarsi andare. Perché questa è l’evoluzione naturale delle cose, sebbene non ci sia nessuna nuova ideologia dominante a indicarci la via. Ma se vogliamo farcela, urge un’apertura. E aprirsi a nuove soluzioni significa accettare la limitatezza dei nostri estremismi, per confrontarci con i pensieri altrui. Apertura significa prendere le nostre belle idee e condividerle, mettendole e mettendoci in discussione. Sarebbe poi la mera applicazione di quella cosa chiamata Democrazia.
Eppur ancora siamo in balia di chi usura questo sistema logoro. Siamo in balia di chi usura le menti, annacquandole con la pubblicità per poi stenderle al sole dell’Unico pensiero in modo tale che si asciughino omologate.
Siamo in balia di chi usura i cuori, straziandoli e frantumandoli per tornaconti personali. Così che i valori e i rapporti siano solo quelli monetari e legali.
Siamo in balia di chi usura i corpi, producendo onde violente che moltiplicano i lividi e fomentano la paura. Siamo in balia di chi usura le anime, succhiando speranza e voglia di vivere. Siamo in balia di moderni usurai in giacca e cravatta, stilisti di una moda d’imposizione che soffoca la pelle, strozzini ammiccanti che tendono cappi attorno ai colli. Rate, tasse, tassi, tagli, debiti, prestiti. I cappi hanno molti nomi.
Chi usura il mondo in nome della cartamoneta e del potere se ne infischia sonoramente della bellezza dell’arte, del grado di istruzione e di salute di un popolo, della solidarietà, dello sviluppo equo- sostenibile... Chi usura il mondo lo fa per fini dettati dal proprio Ego che per natura gira in un circuito chiuso e autarchico.
Noi possiamo liberarci da chi usura e da ogni chiusura. Liberando le nostre idee di cambiamento. Chiudano pure a quattro mandate ogni porta e portone, con tanto di lucchetto, catena e chiavistello. Noi accederemo al futuro fabbricandoci nuove grandi porte. Scorrevoli. E le decoreremo pure. Con materiale di recupero, eh, beninteso.

http://www.uman360.it/chiusura/

London Bridge- Fine

Una visione onirica forse sogno, forse racconto, forse viaggio. O tutte e tre le cose. Una storia che inizia con una fine e finisce con…

immagine tratta da Pixabay

Fine.
Sgradevole odore di fine. Sensazione d’aver fallito, d’aver buttato via tempo, occasioni, sorrisi. E ora è tardi ormai, è la fine. Lo sento, dai rintocchi del grande Big Ben che risuona minaccioso nella mia Londra interiore, cupa e oscura, grande e desolata. E io, anima smarrita, vi vago.
Esploro questa Londra immaginaria, e mi par di vivere un’avventura alla Dylan Dog. Ma non v’è traccia di altre presenze umane, e nemmeno di mostri. Solo apocalittica atmosfera. Cammino accanto al Tamigi indecisa sul da farsi. Fermarsi?
Tanto, è quasi la fine.
Una canzone dei Clash mi riecheggia dentro. London calling. Londra sta annegando. Il cielo è scuro, il Tamigi inquieto. La fine si fa molto vicina.
E così, prossima alla fine, comincio a pensare al fine. Che ci faccio qui? Che ci faccio qui, da sola?
Ho perso di vista il mio fine. E me ne rendo conto solo alla fine. Beffardo destino.
Ma attendere la fine vagando senza meta è un modo piuttosto noioso di concludere l’esistenza, pertanto, corro. Provo a inseguire il mio fine, al novantesimo minuto, ma ci provo; corro disperata, fiume alla mia destra, Clash nella mia testa, mossa dal folle tentativo di rincorrere il mio fine. Ancora corro, mentre poco a poco nei dintorni sbiadiscono i contorni. D'altronde è prossima la fine. Il buio non accenna a sbiadire, però. Rimane lì, vigilante. Eppure la mia corsa ora ha un fine, una meta, che imponente e improvvisamente si rivela ai miei occhi. Un ponte. Un ponte pieno di gente.
In questa visione onirica era mancata proprio, la presenza umana. Forse, come ogni fine che si rispetti, sarà un happy end, in compagnia!
Mentre ancora ci penso, il cielo si scuote ed esplode in un grande fragore. Scoppia a piovere. Le copiose gocce m’invadono, mi rallentano, e sbiadiscono i contorni del ponte, del mio ponte. No! Non sparire, ponte!
Corro verso di esso ma, appena vi metto piede, il ponte prende a sgretolarsi. Mi ritraggo, fradicia, esausta, scossa da un’imminente apocalisse acquatica che mi impedisce di raggiungere il mio fine... Ma, se salgo sul ponte, questo si sgretolerà e le persone sopra sospese cadranno giù. Allora grido, ma i tuoni sovrastano il mio appello. Mi sbraccio, ma la nebbia s’alza per avvolgermi. Questa è la fine. Loro non sanno nemmeno che son qui. Sono tutti stretti gli uni contro gli altri, in attesa della fine. E io, sola, non ho raggiunto la meta. Ho fallito. Mi sento così incompleta. Potrei cedere alla disperazione. Oppure. Tuffarmi. Tanto, fine per fine... Che almeno sappiano ch'io son qui, per loro. Mi tuffo.
L’acqua è gelida, mi penetra la pelle e quasi mi toglie il respiro, tuttavia riesco a gridare e a sbracciarmi. Tanto basta a quelli sul ponte per vedermi. E nel vedermi si allarmano. Vogliono salvarmi. Ma tanto questa è la fine, non ha più importanza. Quel che conta è che sappiano ch'io son qui, per loro, il mio fine. A breve verrò sommersa. Li saluto, mando loro un bacio d’addio.
E poi, mentre attendo la fine di fronte al mio fine... Un’imponente imbarcazione sbuca alle mie spalle e mi acceca con grandi fari. Son troppo sensibile alle luci, dopo tante oscure corse. Mi agito, non penso, non aspetto, ma nuoto, alla cieca, verso i fari. Finché qualcuno mi afferra e mi tira su.
Quando riapro gli occhi, sono sul ponte. Anch'io. Finalmente. Evviva! La tempesta riecheggia solo più in lontananza, ormai. I raggi del sole squarciano il buio. E un suggestivo arcobaleno gli dà il colpo di grazia riportando speranza; varie mani mi stringono. Risuonano ancora i Clash nella mia testa. Ma è cambiata la canzone. Should I stay or should I go?
Rimango, va’. Il clima è bello... Se non fosse ch'io, proprio io, sto causando lo sgretolamento del ponte, accidenti... Me n’ero scordata! Eppure, nessuno appare eccessivamente preoccupato. Anzi, la gente prende a camminare per passare dall'altra parte. Dall'altra parte... Mi avvio anch'io...
Il ponte sta sgretolandosi dietro di noi; facciamo appena in tempo a passar indenni dall'altra parte, ove s’erge l’arcobaleno, che il ponte cessa di esistere. Alle nostre spalle s’è consumata davvero la fine, sotto forma di vuoto.
Dall'altra parte la luce è così intensa. E rimane lì, vigilante.
M’ero sbagliata. Nulla finisce giacché tutto si trasforma.
Inizio.


Condivisione

"La felicità è reale solo se condivisa" (Into the wild)
Niente di più vero. Into the Wild racconta la storia (vera) di un ragazzo che abbandona tutto perché disgustato dal sistema, per partire e affrontare un viaggio incredibile che lo porterà a diretto contatto con la natura, nelle terre selvagge. Quando poi, giunto allo stremo delle forze, sente prossima la fine, si rende conto della grande verità. Se non è condivisa non è felicità autentica.
E già che siamo in tema di fine questa settimana...

Chiudete gli occhi. Immaginate che stia per arrivare davvero la Fine del mondo. Se davvero non si avesse via di scampo, cosa succederebbe? Probabilmente rivivreste flashback della vostra esistenza, un fiume veloce di ricordi prima che la luce si spenga.
Cosa ricordereste, a pochi secondi dalla fine? Cosa vorreste ricordare? Ricorderete forse quel giorno in cui eravate soli in macchina in mezzo al traffico? O quella serata in cui eravate davanti alla TV a gustarvi la partita della Nazionale? O piuttosto ricorderete quel giorno in cui, depressi, andaste al cinema a vedere un film comico per tirarvi su? Oppure, quando eravate al computer a commentare foto e a mandare mail? O ricorderete magari quella volta in cui leggeste il libro più bello che vi sia mai capitato?  Davvero ricorderete i momenti in cui eravate in compagnia della vostra ombra?
Niente di tutto ciò, suppongo. Nemmeno il più meraviglioso dei viaggi può essere abbastanza, se non è condiviso. Perché la vita è condivisione. Quando arriverà la fine, suppongo piuttosto che ricorderete quel giorno in cui eravate in macchina in mezzo al traffico. E con gli amici cantavate a squarciagola la canzone alla radio. Ricorderete la partita della Nazionale, quando con i colleghi di lavoro esultavate in maniera esagerata per il gol degli azzurri. E pure ricorderete quella serata al cinema, laddove guardaste un film comico accanto al vostro compagno o compagna, le cui risate erano ininterrotte e mischiate alle vostre. Ricorderete la sera in cui spegneste il computer per andare a cenare in compagnia dei vostri cari, fra discussioni impegnative, risate, rimproveri. Sì, ricorderete anche quelli, i rimproveri, così come i consigli. E ricorderete il giorno in cui prestaste il vostro libro preferito ad un amico che poi lo trovò bellissimo, e bellissimo fu parlarne insieme. Insieme. Ecco, ricorderete tutti i momenti, significativi o meno, nei quali la vostra ombra era oscurata dalla presenza di qualcuno accanto a voi.

Un nuovo modo di stare al mondo


Se i Maya ci azzeccano, questo mio secondo articolo su uMan sarà anche l’ultimo... Il 22 dicembre potrebbe essere troppo tardi, accidenti! Resta da capire a che ora è la fine del mondo (se lo chiedeva già a suo tempo Ligabue) considerati i fusi orari. Nel dubbio però, come affermava la saggia Marge Simpson, «il giorno del giudizio lo si passa in famiglia». Un po’ come il Natale. Al massimo, un party la sera prima con gli amici, sdrammatizzando sul tragico evento muovendo ipotesi su quale girone infernale ci toccherà quando saremo dall’altra parte.

Il futuro non c’è, non ci può essere; la profezia Maya, almeno, ha una presunta data. Ma che dire del resto? Che dire delle catastrofi ambientali, del tracollo economico, o delle estreme soluzioni autodistruttive di massa (bombe atomiche…)? Forse è troppo comodo avere una data prestabilita per la fine d’ogni cosa. Siamo sull’orlo del baratro, ma non per questo potremo sincronizzare gli orologi e salutare l’Apocalisse col countdown e lo spumante come fosse Capodanno, gridando: “Happy end!”
Okay, mi dispiace per Giacobbo, ma credo proprio che la fine di cui si parli non sia l’Armageddon, bensì la fine di un’Era. Di un sistema. Di un modo di vivere. Di un modo vecchio di stare al mondo, vecchio e orientato ancora a consumare, a succhiar risorse e ricchezze finché si può, alla faccia dello sviluppo sostenibile. È un modo vecchio di stare al mondo, quello che si affida a ottimistici modelli sulla crescita del PIL. È un modo vecchio di stare al mondo, quello che teme il crollo delle Borse più d’ogni altra cosa. È un modo vecchio di stare al mondo, e materialista, quello che non rispetta l’ambiente circostante, come se ci fosse un pianeta di scorta…
Fortunatamente esiste un’alternativa a questo vecchio sistema: imparare a guardare con occhi diversi. Né modelli, bilanci, PIL o spread, né crescita illimitata, strategie di mercato, incentivi ai consumi. Sebbene insistano col dire che non ci sia, dobbiamo costruire il futuro, il nostro futuro, lasciando i resti degli ultimi pasti a vecchi sciacalli che mai si cureranno di noi. Costruire o ricostruire il futuro, il nostro futuro, mentre gli altri distruggono e, forse ignari di saperlo, si distruggono. Costruire è andare oltre le paure e i dubbi infusi dai distruttori stessi. Costruire è creare da zero quel che non c’è e quel che non ci è stato concesso. Costruire è un atto dovuto al fatto stesso che respiriamo.
Ecco, forse, un senso possibile sulla fine che ci attende, al di là di improbabili asteroidi pronti a saltar fuori a sorpresa, al di là di fenomeni tanto catastrofici quanto imprevedibili. Ecco, il senso può essere la fine di un sistema che ha prodotto contraddizioni, infelicità, circoli viziosi di consumi, insoddisfazione, povertà. L’umanità (purtroppo) non ha bisogno d’aspettare una pioggia di asteroidi, né un attacco alieno: è capacissima di autodistruggersi. Guerre, bombe, fame, miseria, surriscaldamento globale, disastri nucleari. La lista nera dei pericoli è talmente svariata che farebbe impallidire qualsiasi attacco alieno. Abbiamo in mano un detonatore e mille modi per azionarlo. E, forse, uno solo per deporlo.

Forse siamo ancora in tempo. In tempo per ricominciare. Non sarà facile, però.
Per riscoprire il valore della vita e ridisegnare un sistema degno di contenere la bellezza dell’umanità, infatti, dovremo riprogettare completamente il nostro modo di stare al mondo. Dovremo ripensare alle nostre reali priorità per capire non come salvarci (giacché davvero la fine del mondo può arrivare in qualunque momento, e senza tanti preavvisi, suppongo) ma come vivere pienamente. Se sabato 22 dicembre ci sveglieremo tutti integri, allora significa che non sarà stata la fine del mondo, ma magari la fine del fondo; non ci resterà che risalire. Ricostruire. Riprogettare. Un nuovo modo di stare al mondo.

Questo articolo lo trovate anche qui: http://www.uman360.it/un-nuovo-modo-di-stare-al-mondo/

Valvole di sfogo

Fonte foto: schiacciamisto5.it
Da non credere.
Due tifoserie rivali, come tante al mondo ce ne sono, se le sono date di santa ragione in Turchia, durante una partita di basket. Forse fin qui niente di nuovo, se non fosse che la partita di basket in questione, Besiktas-Galatasaray, era una partita di atleti disabili. Durante gli scontri, alcuni di questi ragazzi in carrozzella sono rimasti feriti, altri sono riusciti a scorrere attoniti fuori dal campo, perché i loro "tifosi" avevano ormai rasentato la follia. Botte sugli spalti, gradinate incendiate, peggio di qualsiasi curva. Incredibile ma vero.

Qui non si può nemmeno osare parlare di sport.
Purtroppo tutto il mondo è paese, non succedono solo da noi certe cose.
In Turchia avevano vietato ai tifosi di seguire la squadra in trasferta (precisamente, a tutti i sostenitori delle squadre di Istanbul, fra le quali vige una forte rivalità). Così gli ultras di Besiktas e Galatasaray, non potendosi scontrare durante i match di campionato, hanno pensato bene di infiltrarsi in una partita di basket per disabili - giacché i loro club sono società polisportive - al fine di scatenare tutto il loro odio.

La sensazione è che quest'odio verso l'opposta tifoseria non sia altro che uno sciocco pretesto, una gigantesca occasione, una valvola di sfogo per liberare tutta la frustrazione accumulata e vuotare l'anima da troppo peso. Da inviata sui campi di calcio non posso che confermare la facilità con la quale ci si lascia andare a insulti e offese, anche durante partite di Pulcini. E talvolta si arriva alle mani. Rabbia contro l'arbitro, contro gli avversari, contro i tifosi dell'altra squadra. Che grandi insegnamenti per i  bambini.

E se qualcuno si lascia prendere un po' troppo la mano, qualcun altro finisce accoltellato. E qualcuno, come capitato di recente in Olanda, ci lascia anche la pelle.
Se succede in ogni parte del globo, vuol dire che non abbiamo capito niente. Consiglierei a tutte le teste calde - comprese quelle che si limitano a violenza verbale - di andare in palestra, iscriversi ad un bel corso di arti marziali, o di boxe, e sfogare così la loro frustrazione nel contesto di rigide regole che insegnino loro una vaga idea di rispetto.  

Ri(e)voluzione



L'ecologia è sovversiva poiché mette in discussione l'immaginario capitalista dominante. Ne contesta l'assunto fondamentale secondo cui il nostro orizzonte è il continuo aumento della produzione e dei consumi. L'ecologia mette in luce l'impatto catastrofico della logica capitalistica sull'ambiente naturale e sulla vita degli esseri umani. (CORNELIUS CASTORIADIS, Une société à la dérive)
Che guazzabuglio, questo pianeta. Una crisi pazzesca. Per tirarci fuori servirebbe un colpo di genio, spregiudicato e rischioso, come la rovesciata da fuori area coniata da Zlatan Ibrahimovic che già fa proseliti.
Il credo degli economisti, la crescita illimitata, ci ha prima conferito un presunto benessere, poi le risorse hanno cominciato a scarseggiare, finché non abbiamo cominciato la discesa, rapida, ripida, come sulle montagne russe. La chiamano crisi, quest'era di declino dell'economia basata sul mero utilitarismo. La crescita del PIL, cos'ha generato poi finora? Ricchezza. Sì. E scioglimento dei ghiacciai, deforestazione, guerre per il petrolio, povertà, malnutrizione, diseguaglianza, infelicità, o, se si preferisce, insoddisfazione. «Vai al lavoro per pagarti la macchina per andare a lavoro», recita un emblematico murales di periferia. Qui il punto non è però il moralismo, bensì  il buonsenso. Quanto senso ha accumulare ricchezze, produrre beni (inutili), incentivarne l'acquisto infinito fino all'esasperazione, se poi tale sistema genera povertà (intellettuale, umana e spirituale, oltre che economica)?
Nessuna società sana dovrebbe essere proiettata in un'ottica tanto ottusa. O forse la società occidentale altro non è diventata che un'antisocietà perché votata all'individualismo dei consumi che consuma coscienze.
Si parla sempre più insistentemente di decrescita, quella sostenuta dall'economista (economista, non opinionista del Processo di Biscardi) Serge Latouche. Le risorse sono limitate, dunque anche la crescita lo è. Semplice. Ma gli economisti pazzoidi nei loro modelli hanno idealizzato una crescita illimitata. Accidenti quanto ottimismo, nemmeno Walt Disney.
Poniamo anche il caso che fosse possibile, che petrolio, acqua, alberi, carbone ecc. sgorgino illimitati. Che cosa ci porterebbe una crescita illimitata? Davvero la felicità? Davvero la soddisfazione? O forse il sistema è stato concepito proprio per non soddisfarci mai e creare falsi bisogni in maniera... illimitata, appunto?
E poi, sappiamo che le risorse del pianeta Terra sono tutt'altro che infinite. O colonizziamo il Sistema Solare e le sue risorse (e se fosse possibile l'uomo non si farebbe certo problemi...) o cominciamo a razionare quel che ci rimane. Ma questo non sarebbe che un mero sopravvivere, in barba allo sviluppo sostenibile... Allora, occorre riformattare tutto.
Riformattare questo sistema infetto e tenuto in piedi con inutili espedienti -continuare a tassare una popolazione oppressa da disoccupazione, debiti e spese, ad esempio- staccandogli la spina. Cadere, fallire se necessario, per poi risorgere. Questa, se si vuole, sarebbe un'autentica rivoluzione, anzi, una rievoluzione, che cambierebbe il sistema nella sua essenza. Ma se preferiamo, possiamo continuare a massacrarci in piazza a suon di sprangate, fra lacrime e lacrimogeni a bagnare l'asfalto. Come sempre, a noi la scelta, cara umanità.

Ma l'economia non è un demone: basta ripensarla. Chiudere fuori dalla porta ideologie logore, consunte e dannose, e aprire alle idee. Le idee frutto dell'ingegno e della creatività, per modellare un nuovo sistema, un mondo migliore. A misura di persona, non a misura della ricchezza, dell'utile che può ricavarne la persona! Il conflitto di idee può divenire un confronto, e democraticamente ciò non può che migliorare le idee stesse, mentre le ideologie storicamente si sono sempre rivelate un po' troppo presuntuose. Rievolviamo!

Questo articolo lo trovate anche qui:
http://www.uman360.it/rievoluzione/

Madness

L'hanno fatto apposta.

I Muse hanno deciso di fare non uno, ma ben due concerti nella mia Torino, sapendo perfettamente che io sono al verde e non posso comprare alcun biglietto...
Per quanto desideri assistere al concerto della mia band preferita, troverò il modo di consolarmi. Per esempio, in quei giorni potrei andare a visitare, già che costa molto meno il biglietto, un Muse-o...
Concedetemi un po' di facile ironia, è una così immensa tragedia per una devota rockettara come me!
Magari non potrò permettermi di sborsare soldi per vedere l'unico concerto di cui davvero m'importi, ma la vita mi concede il privilegio degli incontri. A costo zero (nemmeno il trasporto pago, per noi ciclisti è così). Incontri. Mi danno forza, alimentano la già grande volontà interiore.

Sollevo lo sguardo sul mio doppio binario. Scettica sul fatto che il mondo stia per finire: nulla muore giacché tutto si trasforma. E così sarà. O almeno, spero che nella peggiore delle ipotesi qualunque asteroide ci colpisca dopo la finale di Champions League...

Folle corro su questo doppio infinito binario.
Frenetica e fredda ferrovia verso la stazione dei miei sogni, a bordo di un treno arrugginito ma ancora funzionante. E parecchio carico di materiale. Destin-st-azione Sogni.

Questo sabato debutterò su un altro blog, molto più grande; terrò una rubrica i cui post saranno pubblicati, uno ogni sabato, anche qui su Man esca. Avrete notato qualche piccola differenziuccia nel blog dall'ultima volta; in effetti, la visualizzazione è più dinamica, più complessa, più folle: ho deciso di cambiare. In fondo, cambiare è rischiare, abbandonare la strada vecchia per quella nuova, ma è anche la cosa più naturale che esista, il mutamento delle cose. Basta volerlo. Non guasta un pizzico di follia. Follia di credere che questa Destin-st-azione arriverà.
Sarò là fuori dallo stadio, nel giugno 2013 (Maya e asteroidi permettendo) a cantare a squarciagola Madness. Soluzione a costo zero. E' la mia canzone, voglio cantarla assieme a Matthew Bellamy in un furibondo sovrapporsi di migliaia di voci urlanti al cielo. E mentre lo scrivo penso che, chissà, magari troverò quel che cerco sulla via, sulla ferrovia, senza bisogno di arrivare a nessuna stazione, secondo il detto che la felicità non è un punto d'arrivo ma il percorso stesso.

Scala(ta) di picche

Torno a parlare di gioco d'azzardo. O meglio, solo di gioco. In un modo molto metaforico.

La giocatrice osservò le sue carte. Facevano decisamente schifo. Continuava a pescare doppioni, invece della cartachetuttopuòcambiare. Da tempo non riusciva a scendere nemmeno un dannato tris, mentre gli altri facevano gioco, pur avendo poche carte. Lei al contrario aveva un ventaglio in mano. Necessario, per la tattica: stava preparando infatti una scala di picche epocale, da asso ad asso. Di quella di cuori invece v'era solo la regina, donna sola, che puntava l'aitante fante di picche. "Jack, Jack!" Ma lui non l'ascoltava. La regina di cuori si voltò dall'altra parte e vide un due di picche. Brutto segno.
In mezzo a quel ventaglio di carte c'erano vari assi, ma nessun Jolly. Il tavolo non offriva opportunità, così, quando toccò a lei, decise di prelevare le carte scartate, fino ad averne in mano ventisette. Dovette distribuirle su due piani per poterle reggere tutte (separando fra l'altro la donna di cuori dal fante di picche).
Ma non poteva resistere a lungo. Guardò i suoi punti: due miseri tris. E ventisette carte in mano. Aveva scelto così. Per un gioco efficace le occorrevano tempo e pazienza. E se fosse stato troppo tardi? Che fare, rompere la tattica in nome della concretezza o rischiare e tentare la scala(ta) di picche epocale?
Frattanto il suo vicino aveva appena realizzato una scala di sette carte, la pinnacola, e dunque avrebbe potuto chiudere, da un momento all'altro. Reggeva solo due carte in mano. Lei sempre ventisette.
Che scalata. E' il momento. Non al prossimo giro. Ora! Non ci è dato scegliere le nostre carte, possiamo solo imparare ad usarle bene. Non potendo ancora scendere la preziosa e celata scala di picche, perché incompleta, la giocatrice decise di resistere ancora un turno. Nel frattempo però, notando un tris di fiori che quasi rischiava di dimenticarsi, decise di buttarlo giù. Poi si apprestò a pescare. Cosa sarebbe uscito? Un jolly, la cartachetuttopuòcambiare o una carta inutile?
Ovviamente una carta inutile. A che poteva servirle un dannato nove di quadri? La giocatrice divenne furiosa.
Nessuno lo sapeva, ma lei aspettava il sette di picche, quello che avrebbe congiunto le due parti di scala di picche, da asso ad asso. Guardò impassibile l'inutile nove di quadri appena pescato. Poi rifletté un momento. Chiunque dei suoi ignari avversari avrebbe potuto scartare il sette di picche. O magari l'avrebbe pescato lei al giro successivo. Oppure sarebbe potuto non arrivare mai.
Era tempo di scartare. La giocatrice indugiò sul dieci e la donna di cuori: mancava il fante. Ma decise infine di tenere i cuori. Le sarebbero serviti, ne era convinta. Tenne persino la carta inutile, il nove di quadri: divenne il prescelto per chiudere la partita, se mai fosse riuscita a tirar giù quella scala di picche... Tutte le carte dovevano contribuire alla causa: serviva una grande cooperativa... di carta.
La giocatrice scartò infine l'asso di fiori, bello e intrigante, ma non le sarebbe servito mai. Mentre il giro ricominciava, scrutò la sua quasi pinnacola di picche. Era incompleta, come lei. Anche la regina di cuori si sentiva incompleta. Lo sapeva, la sua partita rischiava d'essere un fiasco. Eppure, era ancora aperta.

Jerry Maguire

Mi sento Jerry Maguire.
Se devo scegliere un modello di riferimento della finzione statunitense, preferisco lui a Superman e a qualsiasi altro eroe o supereroe.
Potrei essere la sua versione femminile: che ne dite di Jenny Mieiguai?

Mi sento come Jerry Maguire, tormentato in una notte in cui non trova pace perché la sua vita è incompleta e il lavoro da procuratore sportivo lo rende cinico e arrivista.
Mi sento come Jerry Maguire che segue i dettami della coscienza in risveglio e comincia a scrivere. Ne esce una relazione programmatica dal forte spirito etico che presenta convinto all'azienda. "Possiamo lavorare con maggiore attenzione alle persone." "Meno clienti e meno soldi."
Mi sento come Jerry Maguire quando viene licenziato, solo a gridare folle e disperato contro un ufficio colmo di colleghi voltafaccia. "Il pesce rosso viene con me!"
"Qualcun altro vuol venire con me?"
Solo una persona lo segue. L'unica che creda davvero in lui...
Mi sento come Jerry Maguire che in guai seri decide di mettersi in proprio.
Mi sento come Jerry Maguire che perde tutti i suoi clienti, restando senza soldi e con la speranza appesa a un filo. Gli rimane un solo, fedele cliente, tutt'altro che un campione. Mi sento come Jerry Maguire che teme la solitudine ma ha il coraggio di chiudere una storia che non funziona e ricominciare così tutto da zero.
Mi sento come Jerry Maguire continuamente sull'orlo del precipizio, mentre scorrazza fra strade e aeroporti cercando di portare al successo il suo unico cliente non esattamente star del football.
Mi sento come Jerry Maguire che non riesce ad amare fino in fondo e si sorprende se un bambino lo abbraccia e lo bacia. Mi sento come lui, guidato dall'amicizia del suo unico cliente e dall'amore della sola persona in grado di completarlo.
Mi sento come Jerry Maguire che manda a monte la cosa più bella che esista ma ha ancora la forza di seguire fino in fondo la sua impresa professionale. Mi sento come lui, che alla fine ce la fa: il suo unico amico-cliente fa il touchdown ed entra nella storia. Gloria e soldi per entrambi.
Mi sento come Jerry Maguire che si scopre profondamente incompleto proprio all'apice del suo successo. Tutto risuona così insipido. La gloria, i soldi, i flash, le congratulazioni.
Mi sento come Jerry Maguire quando si ricorda che ha una moglie che lo ama. Mi sento Jerry che corre disperato verso l'amore, perché forse non è troppo tardi.

Assomiglio parecchio a questo personaggio, allora interpretato dal bel Tom Cruise. Etica, ambizione, attaccamento alla vita, paura della solitudine, ritardo nel capire le cose, testardaggine. E poi,
difficoltà ad amare, difficoltà ad arrendersi. Resta da capire quale delle due difficoltà prevalga alla fine, perché nella realtà di ognuno di noi un grammo in più dell'una o dell'altra fa la differenza tra una vita incompleta e una vita piena. In fondo è sempre e solo una questione di scelte.

Incrocio

Era tanto che non piazzavo un raccontino sul blog... Questa storia è fresca fresca: nonostante il poco tempo son riuscita a scriverla... Buona lettura!

Manca poco alla fine. Nel senso che sarà la fine.
"Cinque minuti!" strilla il mister, quasi a volerci rimproverare, perché non siamo ancora condannati. Certo, potevamo evitare di giocarci tutto all'ultima giornata. Ora siamo invischiati in questa partita crocevia della stagione, contro la diretta concorrente. Che incrocio terribile, questo. Senza gol finirà zero a zero. Pareggio uguale retrocessione. Eppure, basterebbe un gol. Gli avversari, forti del loro punticino di vantaggio, badano solo a difendersi. Ma nessuno dei miei compagni sembra possedere la forza per provarci. Nemmeno il capitano-superstar-onnipotente-Numero Dieci. Lui, il nostro campione. Oggi non pervenuto.
Pensavo di poterla risolvere io. Però questo ruolo mi eclissa dal gioco. Io volevo essere fantasista, Numero Dieci. Giocare sulla fascia è un lavoro sporco. E poi, a cosa è servito? Nel primo tempo ho fornito assist ai compagni, peccando di altruismo, ma loro non hanno saputo sfruttarli. Nel secondo tempo ho deciso di fare da me, cercando giocate e iniziative personali, in uno sbalzo improvviso- quanto inutile- di egocentrismo puro, come se tutto dipendesse da me. Di gioco di squadra però non se ne parla, gli schemi sono saltati; conterebbe solo vincere. Ma in campo aleggia uno strano spirito di rassegnazione. E mentre non manca che una manciata di minuti alla fine, mi convinco che un gol cambierebbe davvero tutto. Tutto. Cosa darei per segnare io la rete decisiva, magari proprio adesso, prossimi al novantesimo. Che abbiamo da perdere? Ormai, niente... Ma laggiù c'è un catenaccio inespugnabile. Intanto, il pubblico ci fischia. La curva, poi, è infuocata. Fantastico.
Ottantasettesimo, il mister nemmeno parla più. Sono a centrocampo, ad inseguire un pallone impossibile, colpa di un passaggio fuori misura del mio compagno, il Numero Sei, il roccioso difensore dai piedi poco delicati.
Forse dovrei risparmiare fiato, lasciar andare questo pallone destinato fuori... Lasciarlo andare...
Un momento.
Il terzino che copre questa fascia è il biondo ossigenato Numero Tre. Ma io non lottavo contro lo stempiato Numero Due? Ecco, lo sapevo. Ho sbagliato fascia. Ho sbagliato fascia, dico, si può? Se lascio che il pallone vada fuori, il mister mi striglierà... No! Accelero e lo recupero per questione di centimetri. Ecco. E adesso? Che faccio? Nessun compagno in appoggio, te pareva. Il Numero Dieci fuoriclasse rimane fermo. Compagni in area non ne vedo. Però... Se mi mirassi al palo più lontano potrei farcela... Il portiere, che è leggermente fuori posizione, non se lo aspetterebbe! Istintivamente sposto celere il pallone dal piede destro al piede sinistro. Non potrei mai eseguire un tiro normale, sarebbe una telefonata al portiere. Perciò provo ad alzarla. Ne esce un pallonetto dalla traiettoria imprevedibile. Come avevo intuito, coglie gli avversari di sorpresa. Il portiere indietreggia disperatamente...
E poi il pallone si stampa all'incrocio dei pali. La porta trema, il rumore metallico riecheggia in tutto lo stadio. Silenzio. Mani sudate a coprire volti increduli. Ma la sfera non ha finito di sorprendere. Schizza in alto e ricade: il portiere respinge a mano aperta, un difensore rientrato di corsa allontana alla meno peggio. Il nostro capitano però è già in agguato e, al limite dell'area, colpisce la palla con un destro potente. E la palla a sua volta colpisce prima il palo interno, poi la schiena del portiere tuffatosi inutilmente. E rotola via, oltre la linea.
E' il gol più assurdo che abbia mai visto.
Nessuno sa chi ringraziare, come esultare, che fare. Lo stadio però minaccia di venire giù, i tifosi hanno un pathos effervescente e un umore repentino. Eravamo perduti, spacciati, automi in campo, ora pubblico e panchina esplodono con noi dalla gioia. Il mister mi guarda negli occhi, riconoscente, mentre il Numero Dieci della squadra si prende tutta la gloria, sotto la curva festante, in fondo il gol è più o meno suo.
E' ormai la fine e i miei compagni sono trasformati; attaccano, difendono, si parlano, sono concentrati e sicuri. Persino l'eterno zoppicante Numero Nove, l'ipocondriaco e pessimista della squadra, persino lui ora corre. Avversari alle corde. Mentre scorrazzo per il campo partecipando al torello collettivo, penso al mio gesto folle e inspiegabile. Un pallone destinato a rotolare fuori, un pallone destinato a spegnersi. Quel tremore sordo sui pali ha destato una squadra sopita, spacciata. La follia di un'ala sinistra fuori posizione che inventa la speranza per la sua squadra quasi retrocessa.
L'arbitro fischia la fine, ma non abbiamo sofferto nel gestire il risultato, anzi: a momenti il nostro gigante Numero Due non segnava il due a zero con una capocciata su calcio d'angolo. Festeggiamo sotto la curva, in un euforico delirio collettivo, mentre gli avversari catenacciari scorrono via quasi in lacrime.
Nello spogliatoio incrocio il capitano Numero Dieci superstar. Mi stringe la mano, forte. Troppo forte. Sussulto, che forza che ha... Sul suo volto da campione leggo un'espressione a metà fra divertimento e riconoscenza. Ad alta voce scandisce: "Grazie per l'incrocio."

Questo è un racconto di pura fantasia, riferimenti a persone o cose sono da intendersi puramente casuali.

Piazzamento

«Non possiamo consentire alla piazza di fare scelte che deve fare la politica» ministro Annamaria Cancellieri
Fonte foto: wikimedia
Posto che la piazza di cui si parla è quella dei manifestanti, coloro che protestano per difendere dignità e diritti, la frase sentenziata dal ministro dell'Interno non suona molto accettabile dal punto di vista costituzionale, dacché la sovranità è del popolo e non dei politici, nemmeno quelli tecnici. Almeno in teoria.
Considerare la piazza come un ribollitore di facinorosi è una storpiatura della realtà, ma da sempre chi infrange le regole - e basta buttare un sasso - fa più rumore e dunque più notizia.
Il ministro Cancellieri ha espresso solidarietà alle forze dell'ordine. Ovviamente. In fondo, non so quanta voglia abbiano i poliziotti di scontrarsi coi manifestanti. Però, perché il governo non esprime solidarietà anche a studenti, precari, ricercatori, esodati... ? Questo atteggiamento parziale non fa che dilatare la spaccatura.
Indubbiamente le manifestazioni pubbliche rappresentano un terreno di scontro, ma le responsabilità sono da cercarsi dall'una e dall'altra parte: le immagini parlano da sole. Ma lacrimogeni e sassi non si tirano da soli. E i manganelli non si alzano per sbaglio. Poi certo, l'odio incondizionato verso l'una o l'altra categoria non aiuta. Il ministro Cancellieri ha parlato di sacrifici, dicendo che ci dobbiamo preparare a momenti difficili (che novità); ma i sacrifici di cui parla non sono materiale estraneo al popolo, purtroppo, che già da un pezzo si sacrifica in tutti i modi possibili. Il ministro però utilizza il noi, "Dobbiamo". Non potrei essere più d'accordo. Forza allora, la Piazza sarà lieta di unirsi al Palazzo. Sacrifichiamoci insieme. Per noi d'altronde non cambierà nulla, ci siamo abituati. E per voi politici? Sareste pronti a rinunciare all'auto blu e a ridurvi un pochino il lauto stipendio, per esempio? Ecco, sarebbe un buon punto di partenza. Si avrebbero molti più soldi nelle casse statali, meno lamentele e più armonia nelle tanto imputate piazze.
Ci vorrebbe un Parlamento su misura del popolo (dato che il secondo elegge e legittima il primo affinché lo rappresenti e lo tuteli): un Parlamento che sì, sia dalla parte della gente, della Piazza. Ci vorrebbe un Piazzamento, il potere che lavora per il bene dei cittadini, perché autentico rappresentante della volontà popolare.

Piano C

Voglia di un progetto plurale, condiviso, concreto, dopo un anno e mezzo trascorso ad attendere e costruire in prospettiva solitaria. Voglia di condividere un'idea, non di essere premiata per la stessa, ecco ciò che mi mancava.
Ho vissuto un momento di smarrimento e buio. Mi si era scaricata la torcia. In quel momento, pensieri apocalittici (nel mio caso: mi arrendo, mollo tutto, vado via, mi rassegno) stavano plasmandosi. Lo stesso momento in cui facevo la conta delle troppe cose che non avevo, e di quel poco che avevo da perdere. Schiacciata in un paradosso esistenziale che non permette né bagagli né radici (questa è un'autocitazione, ma tranquilli: mi sono chiesta il permesso) bivaccavo, inerme, senza poter far altro che attendere. Attendere che qualcuno, o qualcosa, mi salvasse. Oppure consumarsi lentamente nell'attesa stessa. Poi. Qualcosa dentro, improvvisamente, si è illuminato. Brillare di luce propria. Comodo!
Se piano A e piano B sono impercorribili, né bagagli né radici, allora si passa direttamente al piano C.

Avevo già provato a inventarmi da me una soluzione. Ma era sempre la solita strada ideale. Finché non ho afferrato quale punto fondamentale stesse sfuggendomi. E l'ho afferrato grazie alla luce che mi è scattata dentro d'improvviso, più o meno come la mattina in cui decisi di aprire un blog, o il giorno in cui cominciai a scrivere un romanzo...
Creare lo spazio, il lavoro, il progetto che non c'è. Tutto normale, solito copione. Sono anni che ripeto le stesse cose come una litania, e sono anni che le mie idee si fermano alle scartoffie senza mai cominciare concretamente (con un'unica eccezione ma all'estero è un'altra cosa). A meno che.
A meno che il progetto non sia condiviso, fin da subito. Porte aperte che infrangono la barriera dell'egocentrismo. Questo è il Piano C.
E' stato un attimo: sono partita in quarta e ho scaraventato tutte le idee, vecchie e nuove, su carta, fino a convergerle in un solo grande modello ideale di progetto. Dopo una settimana il modello ideale era già un'idea funzionale, ma non grazie a me, bensì grazie alle prime contaminazioni: ho infatti sottoposto la mia idea iniziale ad altri e questi altri l'hanno contaminata con dubbi e spunti, trasformandola, rendendola migliore.

Ero troppo ferma. Non si può rimanere ad aspettare le possibilità. Eppure, non ho probabilmente nessuna possibilità di realizzare il progetto che ho in mente e in cuore, tranne quella di provare. Sarà un'impresa, certo. In molti sensi, fra l'altro. Il 'problema' è che tale progetto non appartiene più solo a me, adesso. Non è più soltanto mio. Questo sì che 'complica' le cose e sovverte la storia...
Se davvero hanno rubato il futuro alla nostra generazione allora è tempo di tessere una nuova trama di avvenire, ragazzi. Ma non come stagisti. Bisogna smettere i panni degli aspiranti. Aspiranti cosa, a venticinque, trent'anni? Noi sappiamo già chi siamo e cosa vogliamo fare. Ma il tempo scorre via e non aspetta che intanto noi aspettiamo che qualcuno ci dia le possibilità.

E' una faccenda seria, questa idea di progetto. D'altronde scrivere e lanciare idee non è un hobby, per me non lo è mai stato. E' il mio mestiere, il mio moto, il mio istinto incontrollabile. E l'istinto non sbaglia mai.
Continua

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I BUONI PROPOSITI DEL LETTORE

Vorrei cominciare questo nuovo anno condividendo i buoni propositi... del lettore. Molte persone, infatti, mettono fra i buoni propositi qu...