La mia libreria 2020- vol.2
La vita sul nostro pianeta- recensione
La vita sul nostro pianeta, David Attenborough
Edito da Piemme, 2020
Quando mi capitano fra le mani libri stupendi non posso non dedicare loro una recensione.
Qui siamo di fronte a un'opera che traccia con assoluta lucidità il destino del pianeta Terra e, quindi, dell'umanità intera.
L'opera di David Attenborough è lucida, ben curata, tutt'altro che noiosa, spietata nella sua breve analisi del prossimo futuro se non invertiamo la rotta e, infine, preziosa per quanto riguarda la parte propositiva: quando si parla di ambiente e crisi climatica non basta criticare, bisogna proporre soluzioni! E l'autore ci riesce, parlando al lettore con semplicità disarmante.
David Attenborough è stato il pioniere del documentario naturalistico, perciò ha girato il mondo e visto con i suoi occhi ciò di cui parla nel libro. La voce di questo divulgatore scientifico novantaquattrenne dovrebbe essere ascoltata da tutti, dacché lui possiede quella memoria storica che noialtri più giovani, nati già in mezzo a un pianeta stremato e inquinato, non abbiamo. E' quello che l'autore definisce come sindrome dello spostamento della linea di base. Forse non ci abbiamo mai fatto caso, ma noi percepiamo il mondo in base alla nostra esperienza, ciò che c'era prima esula dunque dal nostro concetto di normale. Nascere in un pianeta già inquinato e surriscaldato diventa, man mano che scorrono le generazioni, una cosa normale.
Altri due aspetti mi hanno particolarmente colpito dei copiosi argomenti trattati. Il primo aspetto riguarda gli oceani, il delicato equilibrio marino sconvolto dalle azioni umane, in primis la pesca incontrollata, ma anche gli allevamenti intensivi per far fronte all'enorme domanda di pesce. Per l'autore basterebbe poco a riequilibrare la situazione. Il secondo aspetto riguarda invece le zone selvagge, lo spazio naturale che diminuisce per far spazio a noi, aumentando il rischio - fra le altre cose - di nuovi virus che dal serbatoio animale passano all'uomo, come capitato con l'attuale pandemia (questo non lo sostengo io: si tratta di una teoria scientifica già divulgata qualche mese fa. A riguardo avevo letto uno splendido articolo sulla rivista Internazionale).
E' incredibile come dinanzi a tutto questo l'umanità abbia deciso di scrollare le spalle noncurante, davvero incredibile che non ci renda conto dell'irreversibilità del futuro cui stiamo andando incontro... Eppure, come ci ricorda l'autore, siamo ancora in tempo per invertire la rotta. Questo è l'ottimismo, peraltro sorretto da ottime soluzioni proposte, che manca a tanti altri pensatori.
Non esiste il Nobel alla carriera, ma io a quest'uomo lo darei.
Ad arricchire il volume troverete delle splendide fotografie, oltre a disegni di flora e fauna che inframezzano le pagine. Sul finire è stato inserito un valido glossario in aiuto ai lettori non esperti dei vari processi menzionati nel libro.
Un'ultima avvertenza: benché ben raccontati, nel libro si trattano argomenti di una certa difficoltà, dunque potreste non riuscire a comprendere appieno alcune cose.
R-ockdown
To rock= dondolare, oscillare
Proprio di oggi è la notizia che una libreria apre a Torino.
Una libreria. Apre. In piena pandemia. Sull'orlo del lockdown! Questa, se volete, è follia. Oppure una ventata di speranza che spira su di noi.
Se leggete l'articolo (sull'edizione cartacea odierna de La Stampa Torino) apprenderete che ad aprirla è un archeologo: l'Indiana Jones dei nostri tempi ha dichiarato di aver realizzato il suo sogno.
Ha realizzato il suo sogno... Nonostante la realtà.
Stiamo barcollando sull'orlo di un precipizio, noi singoli così come noi comunità, per questo ci stanno ordinando di restare fermi dove siamo. Paralizzati dove siamo. In questo momento l'oscillazione è tale da non permetterci di camminare correttamente, ma si può sempre dondolare...
Dondolare per avere una parvenza di equilibrio, senso del ritmo in una quasi danza che ci fa sentire vivi, stralcio di movimento nel momento in cui ci dicono di restare fermi. Dondolare non vuol dire negare il pericolo, e nemmeno comportarsi da incoscienti: significa provare a trarre giovamento da una situazione di stallo che potrebbe alla lunga danneggiarci comunque. Dondolare per restare caldi e tonici, per non perdere l'abitudine, magari canticchiando una canzone (of course, una canzone rock).
Rockdown letteralmente vorrebbe dire dondolare giù. Che suona abbastanza strambo, quindi perfettamente adatto alla situazione; Se il lockdown indica il confinamento e la serranda collettiva abbassata, il rockdown può indicare un movimento inusuale, ritmato, pulsante, sebbene prudente e limitato, come resiliente forma di r-esistenza.
Nella vita di tutti i giorni si può tradurre con: prendersi cura di sé, del prossimo e del posto in cui abitiamo. Indossare la mascherina, certo. Ma anche acquistare nelle botteghe sotto casa, vivendo il nostro quartiere come se fosse il nostro villaggio... Questa piccola cosa, fattibile anche in zona rossa, sosterrebbe i piccoli imprenditori e contribuirebbe a costruire un microcosmo di solidarietà fra cittadini. Al contrario, qui pare che il massimo dell'interazione possibile fra concittadini sia il controllarsi a vicenda a mo' di sceriffi. E pensare che cordialità e gentilezza sono praticabili anche a distanza di sicurezza.
Fintanto che abitiamo zone rosse, o aspiranti tali, questo è ciò che possiamo fare. (Sforzarci di) prenderci cura di noi stessi e del prossimo.
Ma non basta. Né rimanere paralizzati, né dondolare, né camminare incuranti di tutto. Bisognerà poi scuotersi. Quando sarà finita l'emergenza non saremo più paralizzati, né dondolanti, eppure non potremo tornare a camminare incuranti di tutto ciò che ci circonda, non ce lo possiamo più permettere: l'emergenza sanitaria del Covid-19 ha messo bene in evidenza ciò che palesemente non funziona, ma ha anche riordinato le nostre priorità.
E allora, se stiamo imparando la lezione, proviamo a ripensare le nostre città! Affinché in futuro si possa parlare solo di zone verdeggianti.
L'autodidatta- il gioco di scrivere
Riassunto delle puntate precedenti: da
adolescente scrivevo diari segreti, lettere e biglietti compiendo un’inconsapevole
analisi introspettiva. Ma avevo anche molta voglia di divertirmi, perciò... Cominciai
presto a inventarmi giochi strampalati pensando ai personaggi, all’ambientazione,
agli arredi e ai costumi! Stavo giocando alla piccola sceneggiatrice senza
saperlo. E quando lo spazio era troppo ristretto per grandi giochi stile caccia
al tesoro, beh, mi limitavo a simil-party game da tavolo. Chiedere ai miei
parenti di Paccopoli e delle altre baggianate che mettevo su ogni Natale
con la complicità di mio padre... Questa è in sintesi la mia sperimentazione
adolescenziale in materia ludica, fatta di grandi, ehm, successi, fino a
raggiungere l’apoteosi col progetto Tealtro nel 2014.
In un’era invasa da schermi e teleschermi
con games veloci, luccicanti e preconfezionati è davvero difficile esaltare la
pratica dei giochi da tavolo, ma la verità è che persino una semplice partita a
Forza 4 può aprire la mente molto più di qualsiasi giochetto compulsivo. Se si
gioca a Forza 4 c’è un avversario davanti a noi con cui interagire, ridere,
scherzare. La lentezza del gioco da tavolo, poi, obbliga a pensare, riflettere,
escogitare la prossima mossa.
I giochi hanno da sempre un
ruolo sociale importantissimo, a qualunque età. I miei nonnetti in RSA quando
giocano alla Tombola sono le persone più felici di questo mondo, anche se non vincono
niente. Se loro, a novant’anni suonati, possono divertirsi con quattro cartelle
e due scemenze come premi perché per noi adulti è così tanto difficile?
Forse perché siamo troppo stanchi-
stressati- delusi- arrabbiati- distratti dalle nostre vite per sederci a un
tavolo e giocare a Cluedo con gli amici? È molto più comodo guardare una serie
TV o pasticciare lo smartphone. La nostra routine incide, è vero, ma spesso è
anche la convenzione sociale secondo cui a una certa età non si può giocare
più. Un vero peccato. Perché col gioco si può socializzare, imparare,
baccagliare, dimagrire, lavorare. Praticamente, giocando, potremmo realizzare
tutti i nostri sogni ;)
Siamo troppo seri. A scuola impartiamo una
ferrea disciplina ai nostri ragazzi, obbligandoli a lunghi periodi di
sedentarietà, compiti in classe, e pure a casa. A lavoro, in un qualunque
ufficio, il modello non può che essere quello.
Io sono una convinta sostenitrice del gioco come mezzo ludico. In futuro, prima o poi, scriverò e pubblicherò un saggio sul gioco, sui benefici che comporta da 0 a 120 anni. Sarebbe l’apoteosi della mia carriera di animautrice.
Ma torniamo alla me stessa adolescente: inventare
giochi, dunque, era diventato il mio passatempo. Certo il bagaglio ludico dell’oratorio
mi aiutò parecchio a sviluppare i meccanismi dei giochi, specie quelli di
movimento. Mi appassionavano proprio: oltre a divertirmi come una matta devo
dire che era molto bello vedere gli altri divertirsi con una mia proposta.
Ricordo che una sera in oratorio proposi un gioco giallo coinvolgendo una parte
degli animatori a fare i personaggi e lasciando gli altri a giocare a squadre
per svelare il mistero. Andò bene. In seguito virai decisa su giochi con
ambientazione horror, fatto di tanti buuh! per spaventare, ma anche di tante trovate
strampalate nelle trame. Strano, allora trovare il consenso degli altri era
infinitamente facile. In genere partecipavano tutti volentieri. Eppure non
avevo chissà quali competenze in merito.
A distanza di anni riconosco il valore
inestimabile di tutte le cacce al tesoro e i vari giochi inventati: mi
aiutarono a pensare che, quando si scrive, bisogna innanzitutto coinvolgere il
lettore. Ma oltre a inventare giochi, a un certo punto presi ad ascoltare il
rap, prendendo subito spunto.
Continua
L'autodidatta- lettere
Seconda puntata
Lettere. Non è un
riferimento alla facoltà universitaria che forse avrei potuto scegliere, e
nemmeno un generico trattato sulle componenti elementari delle parole, bensì un
elogio alle materiali composizioni con mittente e destinatario.
Il diario segreto era
terapeutico, ma segreto, appunto. Ecco perché la mia inclinazione esondò presto
verso altre forme, affini al diario, forme che si rivolgevano al mondo esterno.
Avevo ormai l’abitudine di scrivere tutti i giorni, sicché quando mi capitavano
cartoline o biglietti d’auguri era abbastanza naturale lasciarmi andare oltre le
frasi fatte, verso qualcosa di più profondo.
Oltre ai biglietti delle
ricorrenze e alle dediche sui diari delle mie compagne di scuola, si aggiunse
presto una forma di comunicazione scritta ancora più profonda: la lettera. All’epoca
ero una giovanissima animatrice nella mia parrocchia; ai campi estivi l‘usanza
di scambiarsi bigliettini e messaggi divenne per me fertile terreno di
lunghissimi mattoni- lettere baluardi dell’amicizia vera (ero troppo timida
per le lettere d’amore; ne scrissi una sola abbastanza velata, senza ricevere risposta, e da
allora prevalse la paura del rifiuto). Alcune volte le lettere erano davvero
difficili da redigere: cosa si poteva scrivere a persone che conoscevo poco?
Era infatti usanza, ai campi estivi, scrivere a tutti o quasi tutti i
partecipanti. Così mi sforzavo di calarmi nei panni dell’altro, per trovare
qualche punto in comune. Non lo potevo immaginare, ma stavo compiendo un
esercizio di primordiale empatia.
Come sono cambiati i
tempi! Oggi se vuoi scrivere a qualcuno apri WhatsApp. E spesso lasciamo che
siano Instagram, Facebook, Linkedin, Twitter le nostre finestre di
comunicazione sul mondo, con l’obiettivo più o meno consapevole di raggiungere
più utenti possibili, in modo da incassare più like e commenti e
condivisioni. Si può dire che siamo alla costante ricerca di attenzione e
approvazione. Magari ostentando una felicità che non ci appartiene solo per
costruire un’immagine di noi socialmente accettabile, evitando di mostrare le
debolezze.
Ma la lettera, no. Non
ammette questo tipo di comunicazione, nella lettera bisogna essere autentici. È
vero, soltanto un destinatario la leggerà, ma è proprio questa selezione che
permette di farci conoscere dall’altro, un altro speciale. Nella lettera la
segretezza tipica del diario viene condivisa in un rapporto esclusivo col
destinatario prescelto, che a sua volta potrà scegliere di raccontare il
proprio sé autentico rispondendo con un’altra lettera. I sentimenti prendono
piede facilmente tra le parole, ci si sente più sciolti al punto da rivelare
all’altro ciò che proviamo meglio di qualsiasi discorso. E rivelare le nostre
paure e le nostre cadute diventa molto più facile, se non addirittura
conveniente: chi meglio di un amico (o di un parente) può consigliarci e
comprenderci?
Era un periodo in cui
prediligevo la scrittura a mano, ma questa non si limitò a essere solo un’analisi
introspettiva o una forma di comunicazione: ero pur sempre un’adolescente,
quindi una non-adulta che aveva voglia di divertirsi. Andavo matta per i
giochi, quelli da cortile e quelli di ruolo. Senza particolare fatica mi trovai
a inventare per i bambini dell’oratorio grandi giochi d’azione con cura
minuziosa di dettagli.
continua
Terza puntata: il gioco di scrivere
L'autodidatta- Caro diario
Prima puntata
“(...) Uno dei modi per diventare ‘ciò che
si è’ è l’esercizio della scrittura personale in cui, specialmente attraverso
la stesura di diari autobiografici, il soggetto che si racconta - nello
scrivere, cancellare e riscrivere le definizioni di sé, ma anche nell’annotare
esempi e riflessioni, si scopre e si costituisce.”
Sara
Nosari, L’educabilità, editrice La Scuola, 2002
Iniziai così.
Non so cosa scrivessero Dostoevskij e
Kafka da ragazzi, ma io non mi cimentai in nessuna opera letteraria, iniziai
invece da una inconsapevole e profonda autoanalisi. Come tutti gli adolescenti
avevo solo bisogno di sfogarmi un po’. Buttavo giù tutto quello che di solito
divora a quell’età: l’incertezza del futuro, la paura di amare, il conflitto
col mondo, il dramma esistenziale in qualsiasi evento quotidiano come un 4 in
matematica…
Non iniziavo mai il diario scrivendo mio
caro diario, ma il senso era un po’ quello. Quando ho buttato giù la prima
frase non era mia intenzione cimentarmi in chissà quale impresa, il primo anello
di quella lunga catena fu semplicemente il riflettere su cosa mi stava
accadendo in quel momento. Estate 2001. Facendo animazione in oratorio iniziai
a capire molte cose di me che prima ignoravo. Così, frase dopo frase, decisi di
auto-regolamentarmi e di iniziare un diario di bordo a tutti gli effetti. Chi l’avrebbe
mai detto che ci sarei andata avanti per dodici anni.
Dodici anni, raramente saltando dei
giorni. Se mi rileggo mi metto le mani nei capelli, per la dose esagerata di
tormento che scandiva le mie giornate in ogni ambito. Però... se mi fossi tenuto
dentro tutto sarei implosa. Invece, per dodici anni il diario mi è servito da
valvola di sfogo, non ho mai pensato di farlo leggere a qualcuno, anzi, lo
custodivo con estrema attenzione lontano da sguardi indiscreti.
Ho letto delle cose interessanti riguardo
alla pratica del diario segreto: pare sia davvero un ottimo strumento di
autoanalisi interiore, un modo per conoscersi, raccontarsi, aprirsi un varco
dal di dentro con meno vergogna rispetto, per esempio, al parlarne con qualcun
altro. Il diario non dà facili soluzioni ai problemi, ma fornisce una sorta di
monitoraggio costante che nel tempo può consentire di correggere il tiro.
Naturalmente è un qualcosa di molto spontaneo, e i procedimenti terapeutici che
si possono innescare avvengono perlopiù in maniera inconsapevole.
Scrivere il diario segreto non implica
ovviamente che si diventi poi autori di fama mondiale, ma può essere un chiaro
segnale della propria inclinazione. La tenacia con cui mi chinavo sulle pagine,
nonostante la mole di compiti appena smaltita o ancora da smaltire, era come
una forza magnetica che mi attraeva. Non potevo sottrarmi alla narrazione,
ancorché minima, della mia giornata.
Se fossi stata una teenager nel 2020
probabilmente avrei tenuto un blog, sparso i miei tormenti in giro per i
social, al massimo scribacchiato su un foglio word, ma il lento gesto di
scrivere a mano obbliga a pensare bene a ciò che si sta formulando, ed è molto
più terapeutico. Inoltre, la segretezza fa sì che i molteplici sfoghi rimangano
lì al loro posto, senza che nessun utente commenti quanto scritto.
Il primo step dell’autodidatta è stato
questo, per me. Scrivere fiumi di pagine... Non per tutti gli autori è così,
naturalmente. C’è chi frequenta dei corsi di scrittura creativa, c’è chi inizia
scrivendo dei racconti o delle poesie, o magari un romanzo. Ricordo
distintamente che al liceo mi imbattei in un racconto di un coetaneo,
pubblicato su un giornaletto; fui molto onesta con me stessa nell’ammettere che
no, io non ero assolutamente capace di scrivere così bene; io ero solo quella
che scriveva un diario segreto con cura minuziosa.
Ma l’inclinazione prese presto a
manifestarsi sotto altre forme. Dediche, lettere, bigliettini, cartoline...
portando la mia attrazione fatale sotto gli occhi di tutti.
Continua
Prossima puntata: lettere
L'autodidatta
Introduzione
Vi siete mai chiesti quando gli scrittori hanno deciso di fare gli scrittori?
Quand'è che a un certo punto della vita uno decide di intraprendere una determinata strada? Per alcuni mestieri c'è addirittura la Chiamata, ma la vocazione di scrivere sembra essere oggigiorno un pochino inflazionata... Anzi, mi correggo, la vocazione di pubblicare. Esistono molti modi per arrivare a tale obiettivo, tant'è vero che in Italia si pubblicano circa 65000 titoli l'anno. Emergere da questa mole è assai difficile, perciò pubblicare non basta a decretare il successo di un autore e a definirlo tale: bisogna vendere. Quindi contano solo le copie vendute? Quindi Cinquanta sfumature di grigio è una pietra miliare della letteratura? O forse conta il successo di critica? E se un libro recensito come pessimo viene venduto in milioni di copie, come la mettiamo? Mmh, ci sono troppe variabili.
Insomma, chi può autodefinirsi scrittore o scrittrice, dal momento che non esiste un albo apposito? Quand'è che si acquisisce lo status sociale di autore? Wattpad, Youcanprint, casa editrice tal dei tali, crowdfunding, corsi accademici, raccolta punti, cosa?
I grandi autori del passato hanno dovuto fare i conti con rifiuti, scarso successo di pubblico, mancanza di soldi, e tante altre magagne. Ma un tempo la possibilità di produrre un manoscritto e in seguito di pubblicarlo non era certo alla portata di tutti.
Oggi il web dà una chance praticamente a chiunque, e questo non vale solo per i libri, eppure sono sempre i lettori ad avere l'ultima parola: se certi titoli diventano dei best seller è perché qualcuno li ha pur comprati.
E voi, cari lettori in questo blog, che direste di me a primo impatto? Sono una scrittrice? Una che ci prova? Un'aspirante ispirata? Una promessa incompiuta? Una panchinara cronica che attende speranzosa la sua chance?
Per fare luce bisogna affrontare un viaggio a ritroso. Ripercorrere le tappe, raccontare delle radici piuttosto che dei frutti.
Racconterò di vecchi gesti caduti in disuso, ma molto in voga vent'anni fa. Racconterò di come può essere complesso un processo di formazione, complesso quasi come un'adolescenza. Racconterò di me, ma aprendo a un confronto sulle vostre personali esperienze di autori o di semplici lettori.
Per questo viaggio a ritroso bisogna partire da quel momento in cui ho preso in mano una penna non per fare i compiti. Non per scrivere scemenze. Non perché me l'aveva ordinato qualcuno. Solo per smisurata incontrollabile attrazione
E' proprio lì, a quasi quindici anni, che ho cominciato il mio percorso di
autodidatta
Continua
Festa contorta
Adoro fare torte.
Fosse solo questo.
Amo inventarle dal nulla, e decorarle, e farcirle, senza bisogno di cliché
televisivi o ricette impostate o esempi preconfezionati, adoro mescolare gli
ingredienti alla mia maniera, sperimentale e rischiosa.
Forse avrei potuto fare strada, se solo una pasticceria avesse scelto di
credere nella mia linea di dolci…
Tempo fa feci il giro delle piccole pasticcerie di zona, ma tutte mi
risposero che erano già piene di torte da testare di altri provetti pasticceri.
Qualcuno si sbilanciò oltre, dicendomi che avrei dovuto specializzarmi in una
linea precisa, invece di sfornare crostate di frutta e torte di compleanno e
ripiene al cioccolato e stracolme di crema pasticcera. Insomma, dovevo scegliere
una sola specialità, con ingredienti standard, ma ciò che mi uscì
successivamente furono degli esemplari ibridi, miscugli di calorie che col
tempo imparai a domare, affinché fossero dolci non troppo dolci.
Un giorno un pasticcere più furbo degli altri mi disse che se lo avessi
pagato mi avrebbe fatto esporre una torta nella sua vetrina; rifiutai
indignata, oltretutto si trattava di una vetrina poco esposta e non certo di
una pasticceria del centro… Scoprii col tempo che pasticcerie di questo genere
ce n’erano tante, e che altri aspiranti come me cedevano senza tanti dubbi, pur
di ritagliarsi uno spazietto di visibilità.
Nel frattempo, crebbe in me un disperato bisogno di condividere tutte
quelle calorie.
Che spreco, altrimenti! O che chili in più per me!
Decisi allora di dare una festa. Quale modo migliore di farmi conoscere, se
non prendendo per la gola potenziali
clienti?
Così festa fu.
Doveva trattarsi di una semplice festa con torta, ma i miei dolci
sembravano – dall’esterno - poco accattivanti, persino ambigui. L’offerta
troppo variegata trasformò l’evento in una festa contorta, dacché gli invitati
si mostravano distratti e indecisi. Poco prima della fine tagliai la mia torta
di punta, piccola ma traboccante di panna e fragole, che difatti lasciò gli ultimi
invitati rimasti assai soddisfatti. Che peccato... Avessi avuto più scorte!
Quella festa non mi fermò, anzi, mi riorganizzai, nonostante la mia piccola
cucina non fosse certo attrezzata per sfornare dolci in continuazione… insomma…
dovevo pur mangiare altro! Cercai un equilibrio precario fra cucinare per
passione e cucinare per necessità. I piatti salati mi riuscivano altrettanto
bene, ma costavano comunque tempo e fatica.
L’ostinata passione mi condusse a ricreare una vasta gamma di chantilly nei
quali credevo molto. Ma continuavo a essere sprovvista di strumenti, cosicché
da pasticcera a pasticciona fu un attimo. Benché si presentassero come pasticci
poco invitanti all’esterno, le paste non erano affatto male: la panna al loro
interno era forse la più pregiata che avessi mai creato, ma anche la più
difficile da gestire.
Fu per questo che decisi di contattare un esperto pasticcere, specializzato
nelle paste fresche, nel tentativo di imbastire una collaborazione: oltre che
di strumenti, ero carente di semplici vassoi. Tuttavia questo esperto indugiava
troppo, mi trattava con sufficienza, così lo lasciai perdere.
Per fortuna che in casa avevo ancora un po’ dell’ottima panna. Decisi di
dar fondo a quella preziosa scorta, nel tentativo di fare bella figura.
Diedi un’altra festa.
A questo party, però, non era prevista una torta di spicco a
catturare l’attenzione, perché volevo che gli invitati provassero i miei
chantilly sperimentali. Ahimè, non ottenni il successo sperato: i pochi clienti
che si presentarono parevano del tutto disinteressati alle paste. Ben presto
finirono gli assaggini di torta margherita, ce n’era una sola! Avevo dedicato
un sacco di tempo a preparare quelle paste, possibile che nessuno se ne
curasse?
Un’altra festa contorta.
Sembrava che gli invitati fossero interessati più all’atmosfera, alle vuote
chiacchiere intorno, che alla bontà di quel che si mangiava. Perché spesso non
si ha la pazienza di fermarsi ad assaporare le cose, gustandosele per davvero?
Ho sempre badato molto più all’essenza, ma anche la forma conta molto, a
questo mondo. L’unica possibilità che ho è quella di continuare per
migliorarmi. Chissà se un giorno, finalmente, anche le mie torte e i miei
chantilly approderanno in una vetrina di pasticceria, ancorché piccola.
Ora vi lascio, che vado a fare il tiramisù.
Spazio recensioni- Vita di Pi
Edito da Piemme
MUSICA, FINALMENTE!
La mia libreria 2020- vol.1
29 giugno
Manuale del provetto sognatore
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